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Bang! Bang! Bang!
 
Tre colpi di pistola esplosero all’interno della stazione e, amplificati dal soffitto in metallo e vetro, riecheggiarono nell’atrio. Sylvia sussultò, spaventata da quel boato. I due ufficiali della Polfer alle sue spalle scattarono verso i binari sfoderando le loro Glock.
 
Sylvia guardò il tabellone: sei minuti alla partenza. I colpi l’avevano spaventata; era ora di salire sul treno. Stava cominciando a riporre la macchina fotografica nella borsa quando una mano le strinse la gola e un’altra le afferrò la macchina.
Sylvia si sentì soffocare. Per un paio di secondi tentò di sottrarsi alla presa ma, stordita, perse l’equilibrio e cadde all’indietro. La morsa alla gola si allentò, e lei si strinse la macchina al petto. Le due mani cercarono di sfilargliela dalla testa, ma lei la tenne stretta a sé.
Quando riprese fiato, tentò di gridare ma le uscì solo un flebile “Ai... ai... aiuto!” Nell’atrio era scoppiato il panico. Qualcuno cercava riparo sotto le panchine, ma i più tentavano di fuggire correndo giù per le scale, inciampando l’uno nell’altro, urtando mamme coi bambini, urlando e cercando disperatamente di raggiungere l’uscita. Nessuno faceva caso a Sylvia e al suo aggressore, due come tanti che si agitavano convulsi.
 
L’uomo strattonò Sylvia e afferrò la macchina fotografica, premendogliela sul petto. Il metallo duro e spigoloso affondò nella carne provocandole un dolore atroce. Provò a gridare di nuovo, ma le uscì solo un gemito sommesso e qualche goccia di saliva.
Tentò di allontanare la macchina fotografica dal petto, ma le dita che la tenevano erano salde e la premettero ancor più forte. Il dolore era lancinante. Temeva di svenire, ma riuscì a spostare la macchina di lato. Una mano lasciò la macchina e la colpì sul collo. Sylvia alzò la sua e graffiò il dorso della mano che l’aveva colpita, affondando le unghie nella carne. “Aaah!”, si sentì urlare nell’orecchio e rabbrividì per il fiato caldo sul collo.
 
La mano si scostò di colpo e la schiaffeggiò sul viso. Sylvia sentì un oggetto duro, forse un anello, urtarle un dente. Un altro schiaffo la colpì sulle labbra e sui denti. Provò una fitta acuta, come se il trapano del dentista le avesse toccato un nervo senza anestesia.
 
“Aiuto! Aiuto!”, riuscì a urlare. Ma le sue grida erano coperte dal trambusto della folla che fuggiva dalla stazione. Altri due colpi esplosero nell’atrio.
 
Un violento strattone e Sylvia cadde a terra. Le tracolle e i sacchetti si ingarbugliarono. Rotolò a pancia in giù, premendo la macchina fotografica contro il petto.
 
I regali che aveva nei sacchetti si sparpagliarono a terra. La gente che correva nell’atrio li calpestava, schiacciando le confezioni e lacerando gli involucri.
 
Sylvia sentì un ginocchio pressato sul fianco e due mani che frugavano sotto di lei per prenderle la macchina. Scalciò. Un sandalo urtò contro gli stinchi dell’aggressore e si sfilò. Una mano la colpì in volto e lei alzò un gomito per schermare i colpi.
 
“Aiuto, aiuto!”, strillò di nuovo, ignorata dalla gente in fuga. Una mano le tirò i capelli, torcendole il collo all’indietro. Notò che l’aggressore indossava un passamontagna! Urlò, ma continuò a proteggere la macchina fotografica col suo corpo.
 
La stazione era un pandemonio. I viaggiatori gridavano, fuggendo come bestie spaventate da un temporale. Lasciavano cadere valige, borse, scatole, intralciando il cammino agli altri che vi inciampavano o le spostavano a calci. Qualcuno vide Sylvia immobilizzata a terra da un tizio col passamontagna ma, nel panico generale, nessuno si fermò per prestarle aiuto.
 
Non ci furono eroi alla Stazione Centrale in quel torrido e afoso pomeriggio d’agosto. Nessun buon Samaritano. Solo gente comune: uomini, donne, bambini, giovani, anziani, italiani, tedeschi, svizzeri, francesi, americani che pensavano solo a salvare la propria pelle.
 
Gli altri due uomini col passamontagna corsero dai binari all’atrio, lanciando occhiate tra la folla impazzita in cerca del loro compagno. Al binario sette, due corpi in giacca e cravatta giacevano a terra in una pozza di sangue.
 
L’aggressore di Sylvia vide gli altri due che, appostati sotto il tabellone, agitavano le pistole contro la folla e lo stavano cercando. Afferrò la donna e la trascinò verso di loro. Quando li raggiunse, la sollevò e la tenne stretta davanti a sé, incitando i compagni a imboccare le scale.
 
I tre col passamontagna erano di nuovo insieme; due agitavano le pistole contro la folla terrorizzata e l’altro usava Sylvia come scudo umano, stringendole il petto e tenendole una pistola puntata alla testa mentre la trascinava giù per le scale.
 
Le caviglie e i talloni di Sylvia sbattevano contro i gradini in marmo; si dimenava e tentava di urlare, ma la morsa del suo aggressore le permetteva a malapena a respirare. Scendendo le scale, i tre gridavano alla gente di farsi da parte minacciando di sparare, e tutti gli astanti si appiattivano atterriti alle pareti.
 
Tre agenti della Polfer attraversarono l’atrio di corsa e si fermarono in cima allo scalone. Puntarono le pistole contro gli aggressori che, tenendo Sylvia davanti a sé, avevano raggiunto il piano terra e camminavano all’indietro verso l’uscita.
 
Un agente sparò due colpi, che rimbombarono per tutto lo scalone. I proiettili colpirono il pavimento a pochi centimetri dai piedi di Sylvia e schegge di marmo schizzarono tutt’intorno. Il più alto dei tre prese la mira e rispose ai colpi. L’agente portò una mano al petto, dove si allargò una macchia di sangue. Le sue ginocchia sbatterono a terra e la pistola gli cadde di mano, rotolando per le scale.
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