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Lo Stalker

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Tanto per cominciare, era stata un’idea di Arty, non mia. Non avrei mai fatto nulla di così folle. Ma Arty era fatto così, sfidava sempre gli altri a fare cose rischiose, tipo fumare sigarette dietro alla scuola, lanciare petardi alle auto o attraversare i binari poco prima che passasse un treno. Era stato sospeso da scuola perché aveva sparato con una pistola dalla finestra la vigilia di Capodanno. Era ribelle fino al midollo.

Stavo spingendo la mia bici al fianco di Arty per raggiungere il terminal est degli autobus, dove Arty avrebbe dovuto prendere il n. 83 per tornare a casa. Era l’ultimo giorno di scuola in vista delle vacanze estive, un caldo e umido pomeriggio di maggio, talmente appiccicoso che i nostri vestiti aderivano ai nostri corpi come pelle di serpente. Eravamo vestiti come i tipici ragazzini di terza media: pantaloncini oversize, scarpe da jogging, magliette e berretti da baseball. L’anno seguente ci saremmo trasferiti alla Preston High School dall’altra parte della città, cosa che mi terrorizzava, avendo sentito storie di ragazzi delle classi superiori che si coalizzavano per tormentare i pivellini, pestandoli negli androni e mettendo cose disgustose nei loro armadietti.

Il terminal si trovava quattro corsie preferenziali dietro alla stazione degli autobus extraurbani, attraversato ogni giorno da centinaia di passeggeri. Mentre aspettavamo il n. 83, un autobus proveniente da una cittadina vicina frenò e l’autista si sforzò di sterzare per compiere la stretta curva d’accesso alla sua corsia di destinazione. Frenò bruscamente, imboccò con cautela la stretta corsia e si fermò con un sobbalzo. Tirò una leva e la porta si aprì con un sibilo.

Un fiume di passeggeri esausti si mise in fila per scendere, con i loro quotidiani, le loro borse della spesa e i loro bagagli da quattro soldi. Alti e bassi, grassi e magri, giovani e vecchi, fendevano l’aria pomeridiana appiccicosa e umida.


Arty osservò i passeggeri che si disperdevano e disse: “Chi è quella gente? Dove va? Cosa fa tutto il giorno?”

Arty spalancò gli occhi e parve animarsi. Squittì e indicò l’ultimo uomo sceso dall’autobus. “Guarda quel tipo!” Mi diede una pacca sul braccio. Alla fitta di dolore che seguì il suo schiaffo, feci un salto indietro. Arty era manesco e spingeva e strattonava come un bulletto. Lo detestavo.

“Assomiglia a De Niro, non ti pare? Guarda!” Quando era eccitato, Arty cambiava voce, partiva con il suo timbro normale, poi saliva di un’ottava, come il grido stridulo di un gatto. “Dove starà andando?”


Il tizio assomigliava davvero a De Niro: folti capelli neri, barba ispida, camicia spiegazzata e stivali da lavoro. Il viso aveva un’espressione arcigna. I suoi occhi, scuri e dalle spesse palpebre, scrutarono la folla, come se si nascondesse dalla polizia. Portava con sé una borsa nera della misura di una palla da bowling e si muoveva tra la folla come un bullo, spintonando con le spalle, incurvando il petto, con i piedi che si muovevano a destra e a sinistra per guadagnare terreno sui passeggeri più lenti.

Una ragazza graziosa fasciata in un abito attillato lo superò e lui abbassò gli occhi a fissare il suo didietro ancheggiante. L’angolo della sua bocca si piegò in un’espressione lasciva.


Arty emise un fischio sommesso e mi diede una gomitata nel fianco. “Cavolo, ha l’aria di essere uno tosto. Duro come una roccia. Dove starà andando? Seguiamolo! Chissà, magari sta andando a rapinare una banca.”


“Arty, sei fuori di testa!” protestai. “Potrebbe essere un tipo pericoloso.”

Arty scosse la testa. “Sembra piuttosto che stia andando a un combattimento. Hai visto De Niro in quel film sulla boxe? Fa la parte di un pugile sordo, che le prende di santa ragione. Madonna, nel finale la sua faccia assomiglia a un hamburger!”


Ero terrorizzato. “E se ti vede?” dissi io, tremando. “Quello ti stende e ti spezza le gambe. Me ne vado a casa.”

Arty afferrò il mio braccio ed emise un sonoro squittio. Feci un salto indietro. “Resta qui, non fare il fifone. Seguiamolo, vediamo dove va. Tanto non lo scoprirà mai.”

Il tizio scomparve all’interno del terminal degli autobus. Arty afferrò il mio braccio e trascinò via me e la mia bici verso le corsie degli autobus in direzione della strada. Non appena raggiungemmo il marciapiede, l’uomo ci superò, facendo ondeggiare la sua borsa mentre camminava per strada. Avrei voluto correre via, ma temevo che Arty mi avrebbe mollato un ceffone.

Il tizio arrivò alla fine dell’isolato ed entrò nel bar all’angolo della strada. Sull’ingresso lampeggiava un’insegna a neon blu e rossi, che recitava: “Silver Slipper”. La vetrina reclamizzava “Birra. Biliardo. Bistecche. Hamburger”. Con le facce incollate al vetro, sbirciammo l’interno buio del locale. Un juke box suonava a tutto volume una canzone di Johnny Cash, che parlava di un tale dal nome di ragazza.

Al bancone, il tizio salutò un vecchio dalla barba scura e con la pancia che traboccava da sopra la cintura. Gli diede una pacca sulla schiena, disse qualcosa ed entrambi risero. Un barista portò un bicchiere di birra, che posò sul bancone. Il tale afferrò il bicchiere, rovesciò la testa indietro e lo tracannò, sbattendo il bicchiere sul banco. Una schiuma di bollicine scese lungo il bicchiere vuoto. Due tipi dall’aria rozza con delle stecche da biliardo lo raggiunsero, gli fecero cenno picchiettando sul suo braccio e le loro bocche si allargarono in sorrisi dai denti storti e tarlati. Indossavano T-shirt con emblemi di motociclette e aquile che campeggiavano su bandiere americane.

Il barista ci vide guardare dalla vetrina e si precipitò fuori dal bancone. Mise la testa fuori dalla porta, con una sigaretta che gli penzolava dalle labbra. “Ehi, mocciosi, che combinate? Andatevene al diavolo fuori di qui, o chiamo gli sbirri. Smammate. Dico sul serio!”

Arty ed io facemmo un salto all’indietro e fuggimmo via a razzo, diretti di nuovo al terminal degli autobus. Arty rideva fragorosamente mentre zigzagava tra i pedoni, la testa all’indietro, borbottando frasi incomprensibili. Si fermò all’entrata del terminal, quando arrivò il suo autobus n. 83.

“Ehi, è il mio!” Lo seguii a ruota, con il fiato corto per la folle corsa dal bar. “Devo andare” disse, girando la testa nella mia direzione, mentre il n. 83 entrava nella corsia d’arrivo e si fermava. “Perché non resti e trovi qualcun altro da seguire?” gridò Arty. “Chissà, magari trovi una famosa attrice o qualcosa del genere.” Poi fece quella sua risata stridula da iena.

Arty era pazzo. La sua bravata ne era la riprova. Ero atterrito quando il barista ci aveva urlato contro, eppure mi sentivo stranamente euforico per la nostra breve avventura. Non avrei mai fatto nulla del genere, se Arty non mi avesse sfidato. Sapevo che non l’avrei mai fatto da solo.

“Devo andare a casa, Arty,” gli gridai di rimando, mentre saliva sull’autobus. “Mia madre starà in pensiero, se faccio tardi.”

Arty non si girò neppure per fare il gesto di salutarmi. Si diresse verso il fondo dell’autobus, la testa che oscillava di qua e di là tra le file, prendendo a schiaffi i poggiatesta dei sedili vuoti con ambedue le mani.


Cavolo, pensai tra me e me, quello lì è veramente fuori di testa. L’autista chiuse le porte dell’autobus e s’immise lentamente nel traffico. Nella corsia accanto si fermò l’autobus n. 113 e l’autista aprì le porte. I passeggeri scesero.


Mi tornò in mente il commento di Arty: “Chi è questa gente? Dove va? Cosa fa tutto il giorno?”

Osservai una mamma con due bimbi piccoli scendere dall’autobus, seguita da un ragazzino e una ragazzina. Poi fu la volta di una signora anziana con una borsa della spesa.


Restai di sasso. L’ultima persona a scendere dall’autobus fu una bella donna. Aveva lunghi capelli ricci dal colore simile al granturco. Non avevo mai visto un viso più perfetto in tutta la mia vita: labbra rosee e piene, grandi occhi blu, carnagione di un bianco puro e un naso delicato come quello di una bambola.

Era più grande di mia sorella diciannovenne, Jean, e non era certo una stangona. Aveva un corpo da donna: seni prosperosi e una vita esile, che le metteva in risalto i fianchi. Il suo abito sexy sembrava uscito da una di quelle riviste di moda che leggeva mamma. Il sole splendeva tra i suoi capelli, facendoli scintillare come una corona. Persino in quell’aria afosa appariva fresca, come se si fosse appena asciugata dopo un bagno in piscina.


Mi piaceva guardare le ragazze. Non stavo con nessuna, ma guardavo gli altri ragazzi a scuola, che facevano i pagliacci con le ragazze, ridendo, provocandole e facendo scherzi. Facevano sembrare tutto così facile, ma io non sapevo fare altrettanto. Magari avessi saputo come fare! Sapevo di starmi perdendo il divertimento. Mi eccitavo quando vedevo le ragazze che mi venivano incontro in corridoio o si sedevano di fronte a me in classe. Non sapevo mai cosa dire, provavo a sorridere, ma non riuscivo a fare un sorriso da figo. Loro mi ignoravano e si giravano dall’altra parte. Quando mi guardavo allo specchio, neppure a me piaceva il mio sorriso. Avevo letto una rivista sulle tecniche per attrarre le ragazze, ma nulla funzionava con me.

Sarei voluto andare al cinema a vedere le attrici sullo schermo. Non riuscivo a immaginare cosa si provasse a incontrarne una. Oppure a parlare con una di loro. La donna più graziosa che conoscessi era la signora Phillips, l’insegnante di educazione fisica femminile. I primi tempi soleva percorrere il corridoio per raggiungere l’ufficio accanto alla mia classe e prendere servizio. Io ero seduto nella prima fila e sentivo le sue scarpe da ginnastica scricchiolare sul pavimento lustro. Tentavo di lanciare uno sguardo furtivo mentre passava, con gli occhi che si perdevano nella bellezza delle sue gambe abbronzate e del suo didietro aggraziato. Quando andavo a lezione di educazione fisica, passavo davanti alla sua porta per poter sentire il suo profumo. Mi faceva venire in mente le rose. Chiudevo gli occhi e respiravo a fondo, trattenendone la fragranza il più a lungo possibile.

La donna scesa dall’autobus era persino più bella della signora Phillips. Lanciò un’occhiata nella mia direzione mentre si avviava al terminal. Mi sentii strano a fare cattivi pensieri su come dovesse apparire senza vestiti addosso. Il desiderio di guardarla era la sensazione più potente che avessi mai provato.

Le mie ascelle diventavano ad ogni minuto più madide e le mani avevano preso a sudare. Cosa mi stava succedendo?

Le mie membra si mossero senza che ne avessi alcuna volontà. Una forza ignota stava prendendo possesso del mio corpo: una forza potente, eccitante. Che cosa era? Stavo perdendo il controllo e non riuscivo a resistere.


Spinsi la mia bici tra la folla verso il marciapiede di fronte all’ingresso del terminal. La vidi andare via in direzione opposta al Silver Slipper. Camminava sul marciapiede a passo veloce, come se fosse in ritardo a un appuntamento. Si girò intorno a guardare la strada, scese dal marciapiede e si affrettò ad attraversare dopo che un’auto l’ebbe superata.

Percorse altri due isolati e si diresse al Memorial Park. Quando ebbe raggiunto il parco, imboccò un sentiero che conduceva alla fontana circondata dalle statue dei generali protagonisti della Guerra Civile. Montai sulla mia bici e attraversai all’angolo, mentre lei scompariva nel boschetto di olmi. Conoscevo bene il parco e la seguii lungo il marciapiede, allungando lo sguardo tra gli alberi nel tentativo di scorgere il suo abito color rame che brillava sotto la luce del sole.


Lei non aveva idea che la stessi seguendo. I suoi occhi guardavano dritto, mentre scompariva e riappariva tra gli alberi e le siepi al centro del parco.

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